Pensiero (unico) ed azione

La distanza tra teoria e prassi nella nostra resistenza

Il bel post di Tullio Carapella mi ha fatto pensare al gap che esiste tra azione e pensiero, tra teoria e prassi. Tra essi, quale distanza c’è? Quale ci deve essere?

Molti di noi sono “resistenti” da tanti anni. Resistono al nulla che avanza, alla distruzione della scuola pubblica; resistono ad eventi dannosi (che so? il maestro unico, la valutazione in decimi) e resistono al pensiero unico.

Il pensiero unico dice ad alta voce, dalle trasmissioni televisive, dai giornali, dalla rete: basta con gli epigoni del ’68,  torniamo al passato, sono gli insegnanti ad avere rovinato la scuola, ci vuole la meritocrazia, la scuola è un’azienda, eccetera.

Il pensiero unico dice molte altre cose, non direttamente connesse ai problemi del mondo della scuola, ma che a scuola entrano: zingari e immigrati sono un pericolo, un fastidio, un problema; le regole devono esser rigide; ci vuole ordine; la morale cattolica deve essere la morale per tutti; gli omosessuali sono una vergogna… e si potrebbe continuare sul piano filosofico: la verità è una sola, è assoluta e non relativa; oggettività e verità sono la stessa cosa e c’è qualcuno che ne detiene il monopolio (io avverto un brivido, e voi?).

Il pensiero unico dice tutte queste cose, a volte urlando dai mezzi di comunicazione, con l’arroganza di chi ha il potere. Altre volte, diventa un rumore di fondo che avvertiamo dappertutto: per strada, nel tram, sul posto di lavoro. E’ egemone, dominante, è diventato il comune modo di pensare. Chi la pensa diversamente è matto, eversivo, e certamente qualcuno gli troverà uno scheletro nell’armadio.

Legato al pensiero unico c’è l’azione. Unica anche lei, nel senso che è tutta di uno stesso segno: lo stesso del pensiero unico. Sul macrolivello, l’azione principale è costituita dalle leggi. Leggi speciali, leggi per l’ordine, l’esercito nelle strade, le ronde nei quartieri, i respingimenti in mare, le leggi Gelmini-Tremonti sulla scuola… eccetera anche qui, purtroppo. E poi c’è un microlivello di azione, quello del poliziotto troppo zelante che fa mettere il catetere ad un automobilista per fargli l’esame delle urine, dei giovani che spruzzano il deodorante sulla “negra”, della docente trasferita d’ufficio perchè critica con il governo (sono tutti episodi di cronaca)…

I detentori del pensiero unico, quelli che lo forgiano nelle parole dei presentatori televisivi, delle fiction, nel dossieraggio giornalistico, quelli che stanno nel Palazzo, sono perciò capaci di legare pensiero ed azione.

Noi lo siamo?

Noi che contrastiamo dentro la scuola teoria e prassi di Lorsignori abbiamo una pratica di resistenza fatta di azioni: il corteo, il presidio, lo sciopero… Vero è che, come scrive Tullio, il pensiero unico “digerisce” , rielabora tutto, anche la protesta, in modo che (riporto le sue parole) “….ha più eco la foto in mutande di quattro colleghi che non lo sciopero della fame dei lavoratori di Palermo...” oppure  “…dei nostri messaggi, se mai traspare qualcosa dai servizi televisivi, è solo l’aspetto umano, personale o al massimo è il problema proprio di una singola categoria di lavoratori…”.

Così, anche noi diventiamo a poco a poco convinti che è importante apparire, non essere. Cerchiamo i giornalisti, facciamo proclami, cerchiamo la visibilità… e così impariamo a parlare la lingua unica del pensiero unico. Sperando che questo sia il grimaldello per ottenere quello che vogliamo per noi  e per la scuola. Oppure ci riteniamo detentori unici di una nostra verità unica, stigmatizziamo i traditori, emaniamo scomuniche, facendoci portavoce di un pensiero unico “altro”, che però ha in comune con il pensiero unico di Lorsignori proprio il fatto di essere unico. Tertium non datur.

Pensiero ed azioni sono connessi. Ce ne siamo accorti? Siamo capaci di connetterli? Queste sono le domande che credo dovremmo porci. Ed io non ho risposte, solo dubbi.

E poi: qual è il nostro pensiero? Siamo sicuri che stiamo elaborando un pensiero nostro, fatto da noi, quelli che la scuola la vivono e la fanno ogni giorno? E, fuori di scuola, al di là delle transenne di ferro descritte da Tullio, siamo capaci di fare la stessa cosa?

Ho incontrato da poco (scusate il ritardo) il pensiero di un ricercatore statunitense, Jack Mezirow, che propone alla scuola la figura del professionista riflessivo.

Mezirow afferma che noi, quando riflettiamo, per comprendere la realtà usiamo schemi di significato dati dalle conoscenze che abbiamo, dalle convinzioni, dalle attribuzioni (giudizi di valore), dai sentimenti che proviamo. Così diamo alla realtà una nostra interpretazione. Questa interpretazione è una prospettiva di significato, per Mezirow: sono modelli e coordinate mentali che ci guidano all’azione. Quando gli schemi sono inadeguati a spiegare la nostra esperienza, noi, per placare l’ansia del vuoto, ricorriamo all’autoinganno.

Non sto accusando nessuno di farlo, non sto dicendo che qualcuno lo fa: lo facciamo tutti. Lo faccio anche io. E’ un modo di funzionare della mente. Lo facciamo a scuola, lo facciamo in strada o al bar, se ci andiamo. Si tratta, in pratica, di un altro modo (psicosociale)  di leggere quelli che Freud chiamava meccanismi di difesa dell’Io: negazione, proiezione, razionalizzazione, per esempio.

Mezirow propone di uscire dall’autoinganno con la cultura della riflessività. E’ un argomento che richiederebbe altro spazio ed altro tempo, ma provo a descrivere la sua proposta.

Se esaminiamo criticamente gli assunti di partenza (con l’aiuto degli altri, di una comunità, dei punti di vista altrui, altrimenti è impossibile) e vediamo che sono distorcenti, non validi, impariamo trasformandoci e trasformando anche la realtà. Questo processo si chiama apprendimento trasformativo e ha bisogno dei diversi punti di vista (con buona pace del relativismo). Avviene nel passaggio all’azione e la prima azione è appropriarsi di una diversa prospettiva di significato.

Chi fa quest’operazione (Mezirew la consiglia agli insegnanti, ma io credo che potrebbero pensarci anche quelli che non lo sono) deve fare ricerca-azione. Deve agire riflettendo(non è questo legare pensiero ed azione?). Non è facile; la riflessione può essere anche inconsapevole; l’importante è che, dopo l’azione, si guardi al proprio agire, lo si riconosca, lo si espliciti e diventi consapevole.

Senza volerla fare troppo lunga, forse dobbiamo chiederci se riflettiamo abbastanza su quello che facciamo. Se i nostri schemi di significato non ci autoingannino. Se siamo consapevoli di quello che facciamo, quanto funzionino gli schemi impliciti o inconsapevoli.

Cioè quanto il pensiero unico permei il nostro modo di pensare. Quanto ci sia bisogno di costruirne uno nostro nel corso dell’azione.

E forse tutto questo è quello che scrive Tullio: “possiamo cominciare ad aprire gli occhi, risvegliarci da questo brutto sogno, guardare gli steccati che rischiamo di costruire tra noi e il modo reale, i recinti dove stanno provando a chiudere le bidelle, le palle di vetro dove nuotano boccheggianti i nostri colleghi nelle noiosissime riunioni e saltare gli steccati, guardare all’esterno, metterci in marcia insieme e se nelle riprese televisive veniamo mossi, poco male.”

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